Moravia dimenticato da questa orrenda, piccola borghesia, senza tradizioni, né ambizioni, né morale, né rispetto umano

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novembre 6, 2013 di Tralerighe

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Di Maria Grazia Di Mario

Alberto Moravia è tra i nostri autori più letti, all’estero è considerato un classico, ma in Italia sembra essere stato dimenticato, in primo luogo dalla critica. E’ il momento di chiedersi quali siano le motivazioni: invidia, fraintendimento, svalutazione e stravolgimento del suo messaggio artistico, o semplicemente può aver giocato a sfavore il suo essere CONTRO?  Ma è anche necessario domandarsi: perché rivalutare e riscoprire Moravia? Perché le sue opere sono caratterizzate da due qualità fondamentali assenti nella maggioranza degli autori contemporanei: l’attualità e l’intelligenza di uno stile che “illimpidisce” il presente storico senza maschere.

Anche se Alberto Moravia rimane tra i nostri scrittori più letti, con circa centomila copie vendute ogni anno, e il più conosciuto all’estero, anche se può essere considerato tra i più grandi del nostro Novecento (è l’unico ad aver percorso tutto il secolo e con grande capacità di analisi), di lui non si scrive quasi più. A lanciare l’allarme, per primo, è stato lo scrittore e critico Antonio Debenedetti che, nel 2000, sulla prima pagina del «Corriere della Sera» dichiarò: «Diminuiscono persino le tesi di laurea sull’autore degli Indifferenti. Un disastro!». Nello stesso anno anche lo scrittore Alfonso Berardinelli, chiedendosi le ragioni di tale imprevisto e prolungato silenzio, affermava:

«A dieci anni dalla sua morte il bilancio della fortuna postuma di Moravia è piuttosto negativo. Soprattutto se si pensa alla sua presenza ininterrotta sulla scena pubblica, ormai Moravia sembra uno scrittore dimenticato. Ma una certa dimenticanza, direi, non può che giovare alla sua fortuna di autore e all’attenzione che meritano molti suoi libri. C’è tuttavia una ragione letteraria … la sua narrativa era stata fin dall’inizio moralistica e intellettualistica. Anche in forme che sono tipiche del ’900, il romanzo è per Moravia anzitutto uno strumento di conoscenza, di polemica con il mondo sociale e la cultura contemporanea:continua cioè una grande tradizione, che per lui era soprattutto quella francese e russa culminata in Flaubert e Dostoevskij. Questa grande tradizione, ripresa dalla narrativa impegnata ed esistenzialista degli anni Trenta e Quaranta, si è quasi del tutto esaurita nella seconda metà del secolo con le avanguardie formalistiche e più tardi con le iperletterarie tendenze postmoderne».

Un punto di vista non troppo dissimile lo ha lo scrittore Renzo Paris il quale, intervenendo sull’argomento, nel cercare di spiegare il silenzio di certa critica, afferma:

«Dal secondo dopoguerra in poi è stato uno dei pochi scrittori che apparivano tutti i giorni sui giornali. Credo, così, che la società letteraria italiana, fatta di persone invidiose, una volta morto, ha pensato di non occuparsene più, però i suoi libri continuano ad essere stampati, anche in edizione economica, e vanno bene. I lettori ci sono, dunque è curiosa questa divaricazione. C’è poi un altro problema, i miei colleghi di oggi sono legati alla frantumazione, all’immersione, lontanissimi, non dico dall’Illuminismo, ma da qualsiasi tentativo di razionalizzare, di illimpidire i fatti che capitano. è lui ad avere attraversato il secolo ed avere dato di esso un’immagine non mascherata, appunto. Anche per il linguaggio è il più significativo. è il più grande. All’estero è considerato addirittura un classico, è paradossale la cosa!».

Insomma, mentre Moravia è ancora il più tradotto, acquistato e apprezzato all’estero dei nostri scrittori (in Francia addirittura lo considerano un loro classico), il calo di interesse nei confronti della sua opera in Italia, soprattutto da parte di critici e giornalisti (a soli 20 anni dalla scomparsa), è una sconcertante realtà. Un silenzio peraltro inaspettato, considerando che, in occasione della morte, i mass-media usarono espressioni del tipo: “il massimo scrittore italiano del secolo”, “quella voce immortale ha educato il Novecento”; “è stato il Balzac del nostro tempo”.

È dunque opportuno iniziare a chiedersi quali siano le motivazioni di una tale dimenticanza, che sembra avere colpito in primo luogo la critica, così come ha sottolineato Paris. Ma la questione non è così semplice, in quanto legata ad una serie di domande che potrebbero apparire scontate, ma che sono frutto di un lungo approfondimento. Innanzitutto è il momento di domandarsi se e in quale misura l’opera moraviana sia stata capita ed apprezzata adeguatamente, in secondo luogo quanto, questo scrittore, sia stato vittima di dannosi fraintendimenti. Svalutazione e fraintendimento del contenuto sono peraltro facilmente identificabili. Riguardo al primo punto bisogna riconoscere che se, da un lato, Alberto Moravia ha goduto di una critica che ne ha compreso il valore e i forti contenuti sociali e morali (Geno Pampaloni, Enzo Siciliano, Antonio Debenedetti …), così come la portata rivoluzionaria e polemica degli scritti (Nello Ajello, Renzo Paris, Vito Riviello), dall’altro, in una fetta dei critici e di mercato, si è affermata l’idea di un “Moravia voyeur”. Idea che si può ben esemplificare prendendo ad esempio l’atteggiamento di Jean Luc Godard, il regista che traspose sullo schermo Il disprezzo.

È a tutti noto che Godard trattò il romanzo moraviano alla stregua di un canovaccio asserendo che non era altro che un volgare e grazioso romanzo da stazione, (da leggersi “en chemin de fer”), pieno di sentimenti classici e fuori moda. Altro esempio, ancora più significativo, la sua esclusione dal Nobel, riconoscimento che gli sarebbe stato negato perché “privo di ideali”. Interessante ed esemplificativo al riguardo un articolo di Nello Ajello, pubblicato nella «Domenica di Repubblica», il 16 gennaio 2005, dal titolo Moravia voyeur, il Nobel negato. Scrive, infatti, il noto giornalista e scrittore:

 «Alberto Moravia veniva considerato dagli accademici di Stoccolma, dispensatori del premio Nobel, qualcosa di molto simile a un pornografo. A quindici anni dalla morte dello scrittore romano è possibile affermare con sicurezza che fu questo, schiettamente moralistico, il motivo per il quale fu negato questo riconoscimento».

Continua Ajello:
«Fra i due, l’istituzione e l’artista, i rapporti sono lunghi e agitati. Cominciano nel 1949. A quarantadue anni Moravia è un narratore maturo. L’ultimo suo romanzo, La Romana, che è del 1947 – protagonista una prostituta che esercita in epoca fascista e che i critici accostano a una sua celebre omologa, la scandalosa Moll Flanders di Daniel de Foe – gli ha assicurato un notevole consenso di pubblico. Comincia ad essere ciò che lui stesso definirà a public figure. I diciotto immortali di Stoccolma riconoscono al candidato Moravia un posto di rilievo nel gruppo di testa degli scrittori del suo Paese, e ne elogiano le attitudini di descrittore di costume della società post-naturalista. Ma qui, a loro giudizio, emerge una pecca di natura tale che già all’epoca poteva apparire un po’ retrograda: nella sua opera, osservano, manca quella tendenza idealistica che si richiede per il premio. In definitiva l’Accademia decide di riprendere il discorso in futuro. Ciò si legge nel minuzioso resoconto dei dibattiti che si sono svolti, fra i giurati del Nobel, dai primi del Novecento in poi. A sostenere che Moravia fosse scarsamente idealista era, nel Concistoro di Stoccolma, soprattutto un giurato di grande influenza politica: il segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjold. Fu lui a far precipitare in senso negativo la decisione dei colleghi. Ed è come se il veto a Moravia portasse la sua firma. In una lettera che inviò ad un altro accademico, Par Lagerkvist, gli addebiti nei riguardi del romanziere italiano si precisano. “C’è in lui un tratto spiacevole”, osserva Hammarskjold, che io stesso ho descritto nel mio intervento in Accademia e che Eyvind Johnson (un altro immortale), in seguito ha giustamente caratterizzato,con la parola “voyeur”. Ecco dunque l’autore de Gli indifferenti ridotto alle patetiche dimensioni di un ‘guardone’. Moravia lo seppe e ne soffrì. Ma il capo dell’Onu, destinato ad una tragica fine, non era persona incline ai pentimenti. Quando Moravia andò a trovarlo nella sede delle Nazioni Unite, in compagnia del critico Paolo Milano, più per conoscerlo che per ottenere un chiarimento, quell’austero diplomatico lo accolse con estrema freddezza, ritenendo, così riferisce il professor Tiozzo, che lo scrittore si fosse recato lì espressamente per pietire il Nobel. Fra varie alternanze di umori, negli anni successivi, il giudizio sul candidato Moravia non mutò in maniera decisiva».

In poche parole, per il Nobel Moravia continuerà ad essere un guardone. Scrive sempre il giornalista:

«Il poeta svedese Andres Johan Osterling ha tracciato un compendio dei giudizi prevalenti, a suo riguardo, a Stoccolma, in base ai quali per gli “immortali” in romanzi come L’attenzione o La noia il “grande talento di Moravia si sarebbe dedicato a un’impresa dubbiosa”, avendo ripreso il sopravvento l’attrazione per i «temi “scabrosi”».

La presa di posizione del Nobel lascia davvero perplessi, è possibile che intellettuali di così alta levatura non abbiano compreso i contenuti dell’opera moraviana e si siano lasciati condizionare da preconcetti di tipo moralistico-religioso? Parlare di sesso in Moravia non vuol dire certo essere un voyeur o cadere nella volgarità, è sufficiente leggere le sue opere senza prevenzioni, e soffermarsi sul suo punto di vista. Dirà infatti lo scrittore romano:

«Il sesso è diventato linguaggio ma come tale è sottoposto ai tabù che si applicano al linguaggio. Oggi è una manifestazione in cui si esprime il rapporto tra due persone, rientra nella sfera dei mass-media e dunque la censura, la repressione ai suoi danni, non è del tutto scomparsa. Il sesso è troppo oggettivamente eversivo per non essere oggetto di persecuzione».

Sesso come eversione dunque, ma anche rispondente ad una necessità di tipo freudiano (non dimentichiamo che Marx e Freud saranno per Moravia fondamentali) laddove il sesso appare essere l’unico strumento possibile, in assenza di altri valori, per cercare di entrare in contatto con la donna e di conseguenza con la società (borghesia corrotta, affaristica, amorale) che la donna rappresenta (si consiglia di visionare con attenzione l’unica prova di regia di Moravia, il corto Colpa del sole). In merito al tema sesso è piuttosto interessante il punto di vista di Renzo Paris:

«Mi viene da sorridere perché Moravia è stato sempre considerato un pornografo! Un romanzo come Agostino (che è la storia di un adolescente) in America addirittura viene studiato dagli psicanalisti, e proposto come strumento di lavoro. A rileggerlo oggi sembra tutto il contrario».

Ma passiamo al secondo punto: il fraintendimento (è ovvio però che tra i due ci sia uno stretto legame). Al riguardo è sufficiente prendere in esame la prolifica, quanto superficiale e imbarazzante, produzione di film tratti dai suoi romanzi (ovviamente con qualche eccezione vedi Bertolucci, Maselli, Lizzani) per accorgersi che i romanzi di Moravia sono ridotti a trame nelle quali si perde il significato e il messaggio. Troppo spesso si è accostato Moravia al Neorealismo cinematografico, ma in realtà le diversità sono sostanziali (lo riconosce lui stesso quando ne fotografa i difetti: il qualunquismo, l’assenza di rivolta morale…). Accanto ad una apparente somiglianza di stile (asciutto, visivo) e di contenuti (la realtà è protagonista), tra i suoi libri e la produzione cinematografica si può invece rimarcare una grande differenza. Moravia parte sì dal dato reale, come i neorealisti, ma di fatto, in modo assolutamente cosciente, disegna un vero e proprio teorema. È uno scrittore al servizio di un ideologo. Lo asserisce il critico Geno Pampaloni, ma questo fatto così evidente non è stato adeguatamente approfondito ed apprezzato, anzi c’è chi (Nobel a parte), forse fermandosi alla produzione filmica, ha ravvisato nelle opere di Moravia una assenza di valori. Le sue opere puntano in vece in modo assolutamente significativo il dito contro la realtà. Scrive Pampaloni:

«Ecco allora lo scrittore battersi contro i tabù, le ipocrisie, la corruzione morale ed intellettuale della società. E le patologie che trae dall’esplorazione della realtà sono: l’indifferenza, la noia, l’alienazione, la non autenticità, la velleitaria disubbidienza, la passività anche di fronte ad un linguaggio fatto di luoghi comuni, e l’uscita di sicurezza tentata attraverso il sesso».

È evidente che i valori, le possibili vie d’uscita, emergono proprio dai non valori da lui fotografati, la strada è indicata, ed è nell’essere nell’opposto. In una realtà nella quale il giovane scrittore non può percorrere una chiara via d’uscita morale non gli resta che immergersi nell’indifferenza e sofferenza dell’essere bloccato. Il dramma è reale, in quanto autentico, frutto del suo vissuto esistenziale affonda le radici nell’infanzia e dalla famiglia si riflette sulla società. Vissuto familiare (nel suo ambiente alto borghese non riesce a trovare un’identità, un significato autentico) e malattia (foriera di profonda solitudine e insicurezza) furono determinanti nel donare al giovanissimo Moravia la capacità di vedere “oltre”.

Ora, senza nessuna volontà di chiamare in causa i nostri registi, tutti questi contenuti nei film sono assenti, è evidente il “fraintendimento”, la trasposizione arbitraria e superficiale. D’altra parte anche alcuni critici cinematografici sembrano essersene accorti. Ad esempio lo studioso Ernesto Guidorizzi parla di vera e propria deturpazione: «Moravia osservò moltissimi suoi scritti trasferiti sullo schermo, ma le geometriche linee dell’intelligenza moraviana si dispersero per effetti di generiche approssimazioni».

Sì, perché di Moravia i registi (considerandolo di facile lettura) hanno ripreso solo l’intreccio, dimenticando i forti contenuti esistenzialisti; si è preferito lavorare sui fatti, sugli accadimenti, piuttosto che sul significato, più difficile da gestire ed interpretare. Questa operazione ha portato ad uno stravolgimento e ad una svalutazione dei contenuti, e dunque potrebbe aver contribuito all’affermazione dell’idea pubblica di un Moravia voyeur. Questa mia tesi è confermata dal punto di vista di Francesco Maselli, regista di Gli indifferenti (unico film, assieme a quello di Bertolucci, ad essersi salvato dagli strali della critica). Alla domanda se Moravia fosse davvero così semplice da trasporre sullo schermo, risponde: «Secondo me no, c’è un aspetto che ci aiutava tutti, la forza delle immagini, però nei romanzi ci sono delle cose problematiche per la trasposizione cinematografica, intanto spesso è balzacchiano, poi ha contenuti assolutamente inesprimibili. Non dimentichiamo inoltre che a volte l’intreccio non c’è per niente, come ad esempio nella Noia». La difficoltà, per Maselli dunque, è stata proprio quella di riuscire a sintetizzare discorsi mentali molto articolati. «Io ci ho provato – dice – ma insomma, non è facile». Concludiamo questo discorso, peraltro molto complesso e dilatabile, dicendo che la dimenticanza è certamente legata anche ad una sua totale libertà di pensiero.

Certamente Moravia fu uno scrittore scomodo (così come ha scritto e ben spiegato Nello Ajello nella citata Intervista sullo scrittore scomodo edita da Laterza), fu uno scrittore contro: contro i colleghi perché considerava la letteratura italiana «provinciale e piccolo borghese» e in quanto tale incapace di poter «prescindere dalla politica», contro la politica (fascisti, comunisti, democristiani …) grazie alla quale «lo Stato italiano è un guscio vuoto», contro la società caratterizzata da cinismo, affarismo, provvidenzialismo. Per Moravia lo scrittore doveva avere solo un dovere «quello di essere fedele a se stesso». Concetto chiaramente espresso nel dibattito, organizzato da Nello Ajello presso la sede dell’Espresso, con cinque studenti dell’Università di Roma che parteciparono all’agitazione del Sessantotto. È a tutti noto che, pur nutrendo simpatia per questo movimento, Moravia fu aspramente criticato a causa della sua collaborazione con «Il Corriere della Sera», considerato un giornale borghese. Della trascrizione, pubblicata su «L’Espresso» il 25 febbraio 1968, dal titolo Processo a Moravia, riportiamo alcune battute significative che ci aiutano a capirne il carattere:

Pubblico le mie novelle sul «Corriere della Sera». Ma non troverete nel «Corriere della Sera» una sola mia riga a favore del sistema vigente oggi in Italia. Non potrei collaborare a giornali di partito perché non faccio parte di alcun partito cioè ho idee mie che, volta per volta, possono, ma anche non possono, coincidere con quelle di un partito. Non ho partito, odio i partiti. Non mi ci iscriverei neppure morto. Diventerei uno strumento e non potrei essere utile a nessuno, neppure al partito al quale aderissi. Non partecipo ad alcun monopolio culturale e tantomeno economico. Ho sempre protestato nei miei libri. Protestate anche voi … provate a scrivere un romanzo contro il monopolio.

Insomma, probabilmente uno scrittore non allineato (e tale è rimasto fino alla scomparsa) è uno scrittore che può, più facilmente di altri, essere dimenticato. A questo punto è necessario chiedersi: perché rivalutare e riscoprire Alberto Moravia? Perché le sue opere sono caratterizzate da due qualità fondamentali: l’attualità e l’intelligenza dello stile… Riguardo all’importante discorso dell’attualità moraviana non è azzardato dunque dire che è suo un grande merito, quello di avere individuato i mali (mai curati) della società italiana e di aver anticipato (in una sorta di preveggenza) le malattie del presente attraverso un’analisi implacabile della società romana, capitale ed emblema di una Nazione arretrata. Ricordiamo in merito alcune affermazioni.

Della Roma ottocentesca dice che:

Aveva un aspetto lutulento, addormentato, non provinciale ma neppure di città moderna.

Nella Roma degli anni Trenta del Novecento invece ciò che lo colpisce è:

Non tanto la semplicità rustica, e a suo modo tradizionale del popolo, quanto la ristrettezza e meschinità della piccola e media borghesia, cioè di quella che teoricamente doveva essere la classe dirigente.

E della Roma degli anni Ottanta del secolo scorso:

Roma è diventata irriconoscibile negli ultimi vent’anni. Ma credo che, anche senza l’orrore della speculazione edilizia, le cose non sarebbero cambiate. Roma non è mai stata una capitale, né mai lo sarà. Il sangue non vi si coagula: portare cultura a Roma è come portare acqua in un paniere sfondato. C’è una borghesia che ha soltanto difetti, ma nessuna qualità.

E inoltre:

Perché oggi mi sento così profondamente deluso di fronte alla Roma attuale? Una capitale tra le tante cose, è o dovrebbe essere un modello per l’intera nazione…cioè il centro in cui le energie grezze ma vitali della provincia vengono, appunto, trasformate da una potente e sofisticata macchina sociale in modi di comportamento esemplari. In una capitale tutto ciò che è particolare diventa universale, tutto ciò che è inconscio consapevole, tutto ciò che è rozzo, raffinato. Per dirla in breve, posto che la nazione sia un corpo, la capitale è la mente sempre razionale. Si spiega così il rifiuto, nelle capitali degne di questo nome, di tutto ciò che è volgare e scontato, anche a prezzo di radicali e scandalose trasgressioni alla morale corrente. D’altra parte un modello deve essere prima di tutto ammirevole e dunque degno di imitazione.

Come fa una capitale a diventare capitale? Una capitale diventa capitale attraverso un processo democratico, cioè con la partecipazione più larga possibile di tutti i cittadini al travaglio, che in fondo è soprattutto intellettuale, della continua trasformazione delle energie nazionali in cultura. La capitale, dunque, prima di tutto, è o dovrebbe essere il centro della cultura del paese. Purtroppo questa speranza non si è realizzata, al contrario si è verificato il processo inverso.  Dalla provincia a Roma sono venuti apporti vitali, ma Roma li ha trasformati non già in modelli per l’intera nazione bensì in magma burocratico. È successo, insomma, che l’attività repressiva che è, di solito, la parte minore e, per così dire, vergognosa e inevitabile delle istituzioni, ha preso il sopravvento su quella espressiva. Così, invece dei modelli da imitare, l’Italia ha ricevuto da Roma dei cosiddetti provvedimenti burocratici da osservare e, eventualmente, aggirare. Intanto, però, la provincia ha perduto molto della sua originalità perché la mancanza di una capitale, cioè, appunto, come ho detto, di una società trasformatrice, l’ha fatta ricadere su se stessa. Roma, per esempio, anziché il linguaggio della cultura ha imposto alla provincia il gergo di tipo medio, opaco e massificato, della radio e della televisione e dei rotocalchi. Roma, insomma, invece di essere una creatrice di modelli culturali è diventata un elemento frenante e mortificante per la cultura italiana. A che cosa è dovuto questo risultato sconcertante? Soprattutto all’assenza pressoché completa di quella che ho chiamato prima la circolazione delle idee e delle persone. Quanto a dire che a Roma non c’è una società borghese. Può darsi, anzi è sicuro che la borghesia sia dappertutto in crisi; ma resta il fatto che in attesa di una società nuova e migliore, almeno per ora non c’è che la società borghese, sia pure nella sua recente accezione di classe media. Ma a Roma questa borghesia o classe media non esiste. La burocrazia non è una società, come non lo è l’esercito o la Chiesa, o altro corpo sociale soggetto a una qualsiasi disciplina. La società borghese è quella che ha fatto sì che città come Londra, come Parigi, come Nuova York abbiano avuto quella circolazione di idee e di persone che sembra indispensabile a una capitale per assolvere degnamente la sua funzione di capitale.

Insomma, nel presente i vecchi mali avrebbero rafforzato i nuovi:

«La città si ingrandisce sempre più ma riproduce continuamente i difetti di quando era ancora piccola. Roma è la vera capitale di questa orrenda, piccola borghesia, senza tradizioni, né ambizioni, né morale, né rispetto umano».

All’attualità dei contenuti si affianca l’intelligenza dello stile, uno stile illuministico, chiaro, molto visivo. Questo aspetto, nel libro, è approfondito dallo scrittore Renzo Paris e, in maniera molto originale, dall’appena scomparso poeta Vito Riviello.

 

La dimenticanza tratto da ALBERTO MORAVIA Il profeta indifferente di Maria Grazia Di Mario (onyxeditrice)

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